Una riflessione sull’immaginario storico filmico e come agisce sulle nostre “certezze”
Oggi ho mostrato a una classe scolastica il film Excalibur, di John Boorman (1981). L’argomento guida è stato, abbastanza prevedibilmente, l’epica medievale, ossia la materia del Ciclo Bretone. Uno dei ragazzi, a seguito di una mia osservazione – di quando in quando introduco rapidissime spiegazioni di max. 30 secondi durante la visione, mettendo in pausa -, ha fatto una domanda molto bella e interessante. Per rispondere a questa domanda, come ho detto decisamente acuta, insolita, fondata e interessante, ho impiegato qualche secondo di più per essere certo di non dire fesserie. Segno, questo, che la questione centrava un aspetto a cui non avevo pensato nel fornire un precedente commento e che richiedeva un po’ di acume, erudizione e analisi.
«Perché alla tavola di Artù uomini e donne mangiano insieme?»
(F.D. studente di Prima Media)
Questa era la domanda, scaturita dalla scena in cui Galvano (tra l’altro il mio cavaliere preferito, ivi interpretato da Liam Neeson agli inizi della carriera…) accusa la regina Ginevra di adulterio e scatena la prima disarmonia in seno alla Tavola Rotonda. Tale domanda era nata dal fatto che, commentando una delle scene precedenti, quella in cui Uther Pendragon si invaghisce della duchessa Ygraine, futura madre di Artù, e vedova di Gorlois, duca di Cornovaglia, avevo fatto osservare ai ragazzi che nell’alto medioevo l’etichetta consigliava alle donne di cenare separate dai maschi, almeno nelle classi dirigenti e durante i banchetti formali. Naturalmente, preso atto dell’informazione, il ragazzo – solo ora, faccio caso che ha le mie stesse iniziali… adesso! -, ha osservato la deviazione dalla norma sociale precedentemente affermata e me ne ha chiesto conto.

Questa domanda mi ha “richiamato” un aspetto mai troppo considerato della natura della narrazione: la densità e duttilità, a volte sfuggente, della funzione simbolica e dei riferimenti culturali all’interno di un testo mitologico/leggendario. Anche se il film di Boorman è una rilettura moderna, assolutamente non filologica, né fedelissima al ciclo arturiano, con evidentissime libertà narrative e escamotages di intreccio, nondimeno esso rispecchia fedelmente in certe sue parti la logica storica e i contenuti di una leggenda stratificata, complessa, polisemica quale quella della storia arturiana. Il fatto che sia una sceneggiatura da cinema di intrattenimento, versione attuale delle sessioni di canto presso il menestrello e un pubblico sicuramente più chiassoso e meno aduso alle sottigliezze antropologiche, non ha comunque menomato una certa sottotraccia cardine del Mito.

Artù è insieme riferimento virtuoso del passato e monarca “nuovo”, capace di rompere con le precedenti convenzioni sociali. Nuovo e antico, come ogni Grande Archetipo che si rispetti, Artù è insieme garante della tradizione e sradicatore di irrancidite e decadute consuetudini. Non bisogna dimenticare che il mito arturiano è stato anche veicolo dell’amore cavalleresco emerso dall’ambiente trobadorico provenzale, di qui trasmessosi via Normanni, alle Isole Britanniche. Un amore nuovo, un modello sociale e cortese nuovo, che esaltava la mobilità e intraprendenza delle classi cadette dell’aristocrazia post anno Mille, e una nuova considerazione della nobildonna in seno alla società virile originariamante “chiusa”. Trovate, sto un po’ estremizzando, una donna che conti come elemento nobilitante nel Ciclo Carolingio o Nibelungico… Qui i maschi emergono come unici motori dell’azione: guerra, caccia, vendetta.
Infatti, messo ben più alla prova che Merlino alle domande di Artù, dopo aver rimuginato più del consueto, ho avanzato un tentativo di spiegazione:
«Credo che sia perché Artù rappresenta un modello meno “barbarico” o “arcaico”, meno brutale di suo padre Uther, e esprima gli usi di una corte “nuova” in cui c’è posto per la dama a fianco dei cavalieri, in funzione nobilitante, ma anche dinamica, fonte di avventure, più o meno lecite. Artù è in questo senso simbolo di una regalità nuova. Di una nuova cavalleria.»
È stata la mia risposta. Forse troppo complessa. Ma l’espressione sveglia del mio interlocutore mi ha rassicurato sul fatto che almeno il senso della riflessione fosse passato. La Tavola Rotonda è anche tavola femminile, almeno nelle versioni meno “vittoriane” e ottocentesche dei rifacimenti arturiani. Sicuramente nella lettura di Boorman e Rospo Pallenberg. Qui emerge il Medioevo dei Minnesanger, dei cicli centrali cavallereschi, più che il substrato britanno originario.

Anche se naturalmente il film di Boorman non è che un’enciclopedia-centone pop, il registro simbolico, insito nel suo essere in fondo “favola di intrattenimento”, ha mantenuto una certa fluida consistenza e sopravvivenza. In effetti l’intero film non è un film sul mito arturiano ma un’opera sulla nostra “idea similpop anni Ottanta” di Medioevo, in cui allestimenti e costumi non sono fedeli ma simbolici. A livello icastico e rappresentativo. I castelli del film non sono (sempre) veri castelli – come quello di Cameliard -, ma sono l’idea archetipa di castello, il simbolo popolare di castello, così come la flora e fauna di maghi, “alchimisti”, freaks con tanto di torchio da stampa moderna, dell’immaginario fantastico medievalgotico che popolano la Camelot prospera della fase centrale del mito, o le complesse armature quattro-cinquecentesche a piastre, impensabili persino nella “classica” ambientazione normanna o mitteleuropea della Leggenda. Così i cavalieri, così i riferimenti al conflitto cristianesimo-paganesimo (del tutto impensabile nel testo originario arturiano).


Il film di Boorman è una nana iperdensa di mitologia cavalleresca (e sessualità/macabro tardo Seventies). I livelli e le stratificazioni del mito e del testo sono qui supercompresse e amalgamate in modo decisamente ingenuo, se vogliamo addirittura kitsch, con un mucchio di altri elementi ma proprio per questo, paradossalmente potenti e più “medievali” in ciò, almeno nella logica compositiva, di tante dotte ricostruzioni documentaristiche o cinematografiche. Excalibur è una “tarball” del medievismo immaginato e immaginifico. E consente narrative/narrazioni più stimolanti e efficaci, anche sul piano rappresentativo e simbolico, passatemelo, di un Il Mestiere delle Armi di Ermanno Olmi (2001), fedele, ma anche sobbollito. Tanto fedele e purista alla realtà storica da risultare tassidermico e puritano nel rappresentarcela.

In questo senso e non solo perché effettivamente lo studente medio si getterebbe, con Olmi, da un terrazzo, quello che alla fine rimane in noi, e che per noi conta, è l’impronta profonda di un’impressione simbolica, capace di costituire una realtà immaginata più forte e ispiratrice di quella reale. Il medioevo kitsch di Boorman ha fatto di me, come di tanti altri, e ci spero anche fra i miei studenti, dei medievisti più appassionati di quanto non potrebbe altra cinematografia più fedele al dato storico o alla ricostruzione. In questo Boorman ha perfettamente colto la natura veicolare di amalgama del Ciclo Arturiano, nella sua caotica sospensione fra mitologie remotissime di ambito celtico o germanico con la società medievale dell’amor cortese e la ricostruzione vittoriana romantica del Medioevo quale espresso in un’avventura di Sir Walter Scott. Incluso l’orrido Mordred-bambino in armatura antropomorfa da cherubino nazista, che per me rappresenta forse una delle più riuscite e tuttora spaventevoli rappresentazioni metafisiche del Male mai apparse nel Cinema.

«Loro, hanno fallito [risatina]»
Roba che, credimi, hai ancora i brividi a cinquant’anni suonati.
Tutto insieme al lisergico cinema degli anni Settanta che si stava affacciando su un’epoca ancor più simbolica, immaginifica e barocca con la sfacciata, ambigua, multiforme e polisemica arbitraria sicurezza del simbolo.
