Necessità di una critica interna severa e rigorosa, senza convenzionalismi e mezze misure. Esiste una tendenza del materialismo storico che sollecita e favorisce tutte le cattive tradizioni della media cultura italiana e sembra aderire ad alcuni tratti del carattere italiano: l’improvvisazione, il “talentismo”, la pigrizia fatalistica, il dilettantismo scervellato, la mancanza di disciplina intellettuale, l’irresponsabilità e la slealtà morale e intellettuale.
(Gramsci, “L’Egemonia Culturale”, Roma: Historica Edizioni, 2022)

A leggere il titolo dell’opera appena citata, che sia un progetto attuale, ne siamo abbastanza sicuri. Che il progetto non proceda come aveva previsto il signore, ancora di più. Conoscere anche qui il nemico è doveroso e niente che sia frutto di comprovata esperienza dovrebbe andare trascurato. A ogni modo, nella apparente semplicità della scrittura e trattatistica gramsciana sta tutto il vantaggio di possedere simili testi in scaffale, e tutta la sicurezza di incontrare informazioni e conoscenze utilissime sul piano operativo, pratico e concreto. L’organizzazione deve essere centrale nei nostri pensieri, niente che non possa essere velocemente agito ci sarà utile nei tempi terribili che ci aspettano. Non solo una analisi impietosa, ma la volontà di esercitare un controllo disciplinato e programmatico fanno di Gramsci una voce meritevole di ascolto, confronto, disamina, critica e accrescimento. Al netto di cruciali errori di valutazione Gramsci è autore irrinunciabile. Una biblioteca degna di questo nome non può certo ignorarlo. Gramsci sta in vetta a questo pezzo per ragion veduta.

Il criterio, la selezione, la cernita e anche il diritto al sano e ispirato “vagabondaggio pensante”. Queste sono le costellazioni che mi hanno portato al Salone del Libro di Torino, XXXIV Edizione “Cuori Selvaggi”. Ah, quanto il titolo è burbanzoso e in controtendenza se confrontato onestamente con le vere intenzioni e pratiche del culturame dominante, che purtroppo governa e programma queste pur necessarie fiere di mercato (sarebbe più lecito dire sovraproduzione e sovraofferta del tutto aliene dal reale consumo).
Purtuttavia, di necessità occorre far virtù e per rimpinguare la nostra biblioteca in formazione abbiamo deciso di affidarci molto agli autori russi – e va da sé che di questi tempi è un segnale di nobil cuore e pensier libero! -, e a diverse suggestioni, non esaustive ma certo dirimenti.
Andiamo quindi col presentarle, quali nuovi amici e compagni di fuoco, focolare e di pensiero azionante.

La Cina che sia grande Nemico, o grande Occasione, ci chiama necessariamente attraverso il filtro di un occidentale, pur strutturalista, ma non ancora viziato dal relativismo culturale o peggio che mai dalla pruderia pulcifera della cultura woke post strutturalista o costruttivista. Con la quale sciaguratamente stiamo facendo i conti per un’opera in fieri su una pratica diffusa. Per questo gli anni Trenta e l’opera di Marcel GRANET ci hanno sedotto come primo passo nella comprensione di un universo del tutto alieno. Ma neanche troppo, considerate certe consonanze tra pensiero tradizionale cinese e genius loci, di cui siamo assolutamente persuasi:
Secondo un’altra tradizione, una capitale non merita questo nome se non possiede un Ming t’ang. Il Ming t’ang costituisce una prerogativa propriamente regale e il marchio di un potere stabilito solidamente. È una Casa del Calendario, nella quale si vede quasi una concentrazione dell’universo.
(Marcel GRANET, “Il pensiero cinese”, Milano: Adelphi 1971)

Diceva Gurdjeff, ma con altri fini, che l’Uomo completo deve occuparsi del suo lupo e del suo agnello. Noi accogliamo ereticamente questa simbologia poiché desideriamo esplorare le altezze terribili della ferocia umana per conferire all’Oltreuomo-Superuomo l’acciaio grezzo il tamagahane per la sua nuova, incondizionata e incoercibile, natura. Del resto la biografia di Robert EISLER ce lo fa sembrare meritevole di ascolto, con le necessarie avvertenze e cautele, s’intenda! Anche perché il tema del licantropismo e della ferinità rituale attiene e pertiene a un archetipo ario-indoeuropeo dominante e ambivalente. Quindi ben entri nella Torre anche un Eisler, se utile a esplorare da altre e forse opposte prospettive un territorio pericoloso.
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, 895 (Inizio del XIII secolo): «Anglici … werwolf dicunt: were enim anglice virum sonat, wolf, lupum» («Gli inglesi … dicono werewolf, perché in inglese were significa uomo, e wolf, lupo»). Il corrispondente antico scandinavo di werewolf è vargulfr, letteralmente “lupo solitario”, norvegese, svedese e danese varulv, latino medievale guerulfus, normanno del XII secolo garwalf…
(Robert EISLER, “Uomo diventa lupo”, Milano: Adelphi 2019)

Il desiderio di migliorare la nostra padronanza del panorama letterario si unisce a chi esplorò mirabilmente il tema del desiderio. Nabokov è una garanzia. Anche solo per le parole conquistatrici di apertura dell’opera. A perenne ludibrio di censori e morafilistei, che schiattino! E non parliamo qui di lolitismo ma di cieca ottusità ostracista russofoba. E neanche apriamo l’indice… che proprio adesso, anzi subito dopo aver digitato queste righe scopriamo, senza avere mai aperto prima il libro, quanto siamo in assoluta sintonia con monsieur Vladimir Vladimirovič! Dedica addirittura un capitolo del volume a “Filistei e Filisteismo” (p. 403). Questa non è critica letteraria o bibliofilia, questo è un oracolo! Quando succedono questi miracoli di sinergia e sintonia non si può che gridare: “Ci siamo!”, abbiamo scritto di filisteismo e bam, scoppia la fucilata della consonanza e la pagina si apre come un vaticinio sacro sulla specifica parola. Come si fa a non essere felici del proprio naso e del proprio intuito? Figurarsi quando parlerà dei giganti del romanzo mondiale. Basta, non diciamo altro, la verità è nuda. Agli atti!
È difficile astenersi dal sollievo dell’ironia, dal lusso del disprezzo, quando si considera il disastro che mani docili, obbedienti tentacoli guidati dall’enfio polipo dello Stato, sono riuscite a fare di quella cosa ardente, fantasiosa, libera che è la letteratura. Di più: ho imparato a fare tesoro del mio disgusto in quanto so che, nutrendo un sentimento così forte per la letteratura russa, sto salvando quanto posso del suo spirito.
(Vladimir V. NABOKOV, “Lezioni di Letteratura Russa”, Milano: Adelphi, 2021)

Altro nemico-amico e di qual calibro (espressione volutamente tecnica)! Con istruzioni da maneggiare con estrema cura. Sempre bisogna sporcarsi le mani con l’officina della parola poetica. E ogni poeta è fratello e compagno in questo. Non è da prendersi alla lettera, ne uscirebbero fraintendimenti e paurosi disastri, ma speriamo di avere abbastanza “mestiere” in corpo per trascorrere una visita profittevole e istruttiva nel Cantiere Siderurgico Majakovskij. Una lettura estremamente stimolante e caustica, proprio una modellazione per elettroerosione. La fortuna è di aver avuto modo di studiare la fabbrica per un periodo della nostra vita: sappiamo entrare nello spirito e nelle metodologie di questo genio e del suo agile e prezioso strumento pratico per il versificatore. Da portare sempre con se o perlomeno da custodire pronto all’uso come su una oleata rastrelliera di attrezzi. Viva Majakovskij.
Il tempo è necessario anche per far posare un lavoro già scritto. Tutte le poesie che ho composto su un tema immediato, col massimo entusiasmo interiore, e che mi piacevano mentre le scrivevo, mi sono sembrate piatte, poco elaborate e unilaterali, il giorno dopo. Si ha sempre una voglia terribile di ritoccare qualche cosa. Per questo, finita una poesia, la rinchiudo in un cassetto per vari giorni, poi la riprendo e subito ne scorgo i difetti che mi erano sfuggiti prima. È un lavoro molto faticoso.
(Vladimir V. MAJAKOVSKIJ, “Come fare poesia?”, Milano: La Vita Felice 2021)

Chi è il più crudele? Quale lezione di strategia e metodo può impartirci? Soprattutto quanto è importante conoscere la psicologia unita all’azione di uno dei più freddi e determinati pianificatori di assassini del Novecento? Non sorprende certo la nostra “coscienza” che l’infame Stalin se ne vantasse scherzando a Yalta con Roosevelt e Churchill (i”democratici” angloamericani), chiamandolo “Il mio Himmler”. Né lo storico che è in noi se ne meraviglia, ben sapendo quanta ipocrisia costituisca e de-termini la politica di massa nel mondo sovrappopolato. Unico difetto la scarna mole dell’opera, appena introduttiva, minimalistica, e certo meritevole di una ricerca ad hoc negli archivi russi, più o meno “ex”-sovietici. Quasi nessuna informazione sul modus cogitandi del Boia di Stalin. Peccato. Perché molto della personale natura umana può plasmare una corrispettiva disumanità. Anche se è fortissimo il sospetto che il vero motore della ferocia politica stesse già allora, eoggi con assoluta evidenza, gradualmente trasferendosi dalle persone alle strutture. Un’avvertenza di tipo metodologico che deve metterci in guardia da banali psicologismi o eccessive personalizzazioni di determinati processi storici.
Stalin voleva avere la certezza che il cadavere carbonizzato fosse quello del dittatore tedesco per liberarsi definitivamente da quella figura ingombrante della sua vita.
(Riccardo LUCIANI, “Il Boia di Stalin. Vita di Lavrentij Berija”, Idrovolante Edizioni, 2020)